martedì 13 gennaio 2015

Perché le case discografiche ostacolano lo streaming lossless e l'alta definizione

Appare un controsenso economico la strategia delle case discografiche (major e indies unite, con poche eccezioni) rispetto a streaming e HD. Il mercato si basa sul bilanciamento tra domanda e offerta, i consumatori di musica tutti chiedono lo streaming che hanno già con la TV satellitare o in rete con YouTube e stanno velocemente abbandonando il download. I consumatori più esigenti stanno accettando la musica liquida in HD dopo le diffidenze iniziali e anzi pare stiano scoprendo un nuovo Nirvana musicale con il formato DSD, e ovviamente sono molto interessati ad uno streaming in qualità CD o addirittura HD.

Quindi la domanda c'è, ma c'è anche il prodotto per soddisfarla, e in quantità virtualmente infinita, perché la tecnologia digitale non ha costi di realizzazione del prodotto singolo e non richiede materie prime: non richiede fabbriche di stampaggio, confezioni e distribuzione via nave o via camion. La musica è il primo bene di consumo che è stato smaterializzato e questo è un vantaggio non da poco per chi la vende.

Quindi perché vendere solo in pochi paesi, non vendere in altri (e in particolare in Italia), mettere in vendita solo parte della produzione, quella più datata e meno appetibile, non il contrario, e preferire i generi che hanno meno mercato? Tutte pratiche commerciali illogiche, apparentemente, come se una casa di mode nel suo sito e-Commerce mettesse solo la produzione dell'anno prima, o lo stesso facesse Ikea, costringendo la gente ad andare in negozio per comprare le novità. L'e-commerce invece serve per ampliare virtualmente i negozi, e costa infinitamente meno rispetto ad una distribuzione capillare. Oltre ad essere aperto H24.

La spiegazione che ho sentito spesso, e che pare ancora echeggiare nei siti dei discografici (per esempio in quello della IFPI), tira in ballo la pirateria. Il timore che il materiale in HD legale entri nel circuito illegale e azzeri il mercato. Ma non credo che sia così e che neanche i discografici più tetragoni ci credano ancora.

I due segmenti di mercato
Il mercato della musica lo possiamo suddividere tra due sotto-mercati, il mercato molto ampio della musica di consumo, dove la qualità del suono ha una importanza relativa, dove anche la qualità musicale è sostituita dalla sorpresa di un brano con una piccola idea originale, dal nome dell'interprete o dal traino di film, fiction, video o eventi cui il brano è legato. Con un approccio "usa e getta" nei confronti degli innumerevoli gruppi e interpreti che ruotano incessantemente e si moltiplicano. Non vale neanche la pena sapere chi siano e da dove vengano, quasi sempre. La musica è una forma di intrattenimento da consumare possibilmente in forma gratuita, anche se i consumatori di questo segmento sono entrati ormai nella logica televisiva dei contenuti "premium" e quindi una propensione all'acquisto, se non altro per una fruizione libera dalla pubblicità, c'è.

L'altro mercato, di nicchia, è quello degli ascoltatori esigenti, di classica e jazz, ma non solo, che hanno una grande attenzione verso la qualità del suono e anche a quella musicale, seguono gruppi e autori specifici, sono esigenti. E sono in maggioranza adulti e con maggiore possibilità di acquisto e propensione a spendere per la musica.

L'offerta per i due segmenti
Per il primo segmento l'offerta pare che si stia consolidando, dopo oltre 10 anni di terremoti e di assestamenti. Per chi non vuole spendere proprio nulla e non ha interesse particolare alla qualità del suono c'è YouTube (e derivati, incluso Spotify gratuito), si regge sugli inserzionisti come la TV in chiaro, parte degli introiti vanno alle case discografiche e ai detentori dei diritti d'autore e va bene a tutti. Per gli utenti più esigenti, quelli che vanno in giro con le cuffie e non più con gli auricolari e a casa hanno uno Zeppelin della B&W o simili ci sono i servizi in streaming di tipo "premium", con Spotify e Deezer in testa, e Apple e Google in arrivo.

A questi si aggiungono o si sovrappongono quelli che stanno passando all'ascolto tramite playlist, con anche la opzione di condividerle o diffonderle, oppure all'ascolto "radio" nel senso nuovo del termine, nel senso di associazioni libere e casuali originate (ma dal servizio, non dall'ascoltatore) dalle scelte iniziali e dalle preferenze espresse. Un on-demand a sorpresa. Qui Spotify e Deezer o gli analoghi servizi di Google e Sony sono la soluzione (parlo sempre di quello che è disponibile in Italia), alle case discografiche va benissimo anche questo e concedono senza problemi i loro cataloghi a tutti quelli che lo chiedono, se garantiscono buoni introiti o contratti partenariato profittevoli, come fanno sicuramente questi giganti del mercato.
Infine c'è il download, ovvero iTunes, che va lentamente a sparire. Ma che ormai è ammortizzato quindi per quanto sia poco (ma ancora è molto) è tutto guadagno, sia per Apple sia per le case discografiche.


Per il secondo segmento invece la strategia è opposta, o meglio è la stessa dei remoti tempi pre-iTunes, ovvero, apparentemente, ostacolare il più possibile i pochi soggetti che tentano di aprire questo mercato. Il fatto è che qui i margini sono molto più alti, l'alternativa illegale meno ricercata e meno attraente (nessun audiofilo manderebbe al suo prezioso impianto l'audio di YouTube), e c'è la propensione a spendere anche senza motivo apparente se non la qualità del suono (concetto da sempre poco compreso dal marketing discografico) come dimostra il ritorno del vinile.

Un mercato quindi da tutelare, finché dura, popolato oltretutto da persone adulte o, per dirla tutta, anziane, poco propense al cambiamento e alle novità. Perché cedere per malintesa modernità? Meglio resistere finché si può con i CD, distribuiti nei negozi oppure (massima cessione alla modernità) per posta, e magari tentare qualcosa di nuovo ma sempre di fisico (vedi la incredibile vicenda del Pure Audio Blu Ray).

Il segmento degli ascoltatori esigenti
Se proprio qualcuno vuole tentare la vendita su questo esigente mercato di nicchia di musica liquida, deve pagare chi possiede la musica da vendere. Le case discografiche hanno qualcosa di indispensabile per lui, il catalogo, e quindi lo vendono al miglior prezzo possibile. E per paese, un po' in base alla propensione alla pirateria dei suoi abitanti (ma sono tutti propensi, come sappiamo). Ma molto di più per frazionare i costi di ogni singolo contratto di partenariato e quindi alzarli complessivamente.



Qui i soggetti sono tutti piccoli (HDTracks, Qobuz, HighresolutionAudio, Pono ecc.) e con forza contrattuale scarsa. Da qui la scelta obbligata di concentrare lo sforzo dell'investimento iniziale su pochi paesi dove la domanda di questo particolare segmento è più forte e che comunque può garantire, forse, un ritorno. Di più non potrebbero fare. Da qui la scelta di HDTracks di sbarcare in Europa solo in UK e Germania o le scelte analoghe di Qobuz. In Italia il segmento "alto" è particolarmente ridotto e quindi passiamo in secondo piano, anche se siamo tanti.

In sintesi le case discografiche non è che abbiamo timore della pirateria, cercano semplicemente di spremere al massimo gli operatori del settore imponendo le condizioni economiche più favorevoli per loro a soggetti più deboli di loro. Quello che non hanno fatto o non hanno potuto fare alla nascita di iTunes. Sfruttando al massimo un mercato che per loro è marginale e sul quale non puntano, preferiscono aspettare che maturi da solo, non vogliono sprecare le risorse che hanno (e che sono in costante diminuzione) qui. E beneficiando della diminuzione del fenomeno della pirateria grazie all'effetto calmieratore di YouTube.

Il Pono Player HD lanciato da Neil Young e dai suoi soci

I grandi rimangono alla finestra
Resta però aperta un'altra domanda: perché solo piccoli operatori sono interessati a questo mercato? Che comunque a livello globale garantirebbe ottimi fatturati e con ampie possibilità di crescita, come dimostrato dalla progressiva scoperta della qualità del suono che si sta osservando anche tra i giovani (e che è testimoniato dall'improvviso successo di un componente fino a poco tempo fa quasi abbandonato: la cuffia stereo).

Ce lo chiediamo da tempo per la Apple e magari diamo la colpa alla triste prematura scomparsa di Steve Jobs, ma lo stesso fanno gli innovatori di Google e la Sony dal ritrovato dinamismo. Penso però che la risposta sia molto semplice. Sono corporation che operano in altri mercati, la musica è un mezzo per sviluppare il loro core business (l'hardware per la Sony, mentre la Sony Music ragiona esattamente come le altre case discografiche). I fatturati che hanno grazie alla musica sono più che sufficienti o sono di presidio (Google, che presidia il suo vero asset nel settore, YouTube). Quando la domanda si sposterà verso l'alto saranno pronti, non servono investimenti particolari, basta volerlo. Comprando magari i soggetti già esistenti come Qobuz o Tidal, e come Google ha già fatto, per fare un esempio, molte alte volte (inclusa la fortunata acquisizione di YouTube).


(Le immagini presentano alcuni dei coraggiosi operatori sul segmento di mercato negletto per le case discografiche, Qobus, HigresAudio e Pono, più iTunes che negletto decisamente non è)






1 commento:

  1. Molto interessante (come sempre).
    Grazie all'ultimo aggiornamento del firmware, sul mio Unitiqute io ascolto Spotify a 320 kb; è molto comodo da manovraredirettamente dall'ipad e devo dire di essere piuttosto soddisfatto della qualità sonora.
    Non ho fatto però ancora ascolti comparitivi (stesso disco su CD e Spotify).
    Ciao
    Antonio

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